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Reportage sulla 79esima MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA di Pier Paolo Ronchetti

Prima edizione della Mostra del Cinema di Venezia a piena capienza, ma sempre con obbligo di prenotazione online, gestita da un operatore evidentemente poco avvezzo alla pratica e che ha provocato disagi durante tutta la durata del festival: posti non riservabili per sale poi rivelatesi semivuote, cancellazioni effettuate dai singoli (di posti che poi non venivano reinseriti nel circuito tornando a essere accessibili) sveglie all'alba per assicurarsi una manciata di slot e nessuna rush line prevista in caso di effettiva disponibilità.

È stata anche l’edizione del ritorno del cinema delle grandi produzioni, specie americane, molte targate Netflix, che questa volta è uscita, a differenza dello scorso anno, del tutto a mani vuote dalla competizione.

In effetti, i titoli della piattaforma erano effettivamente fra i più deboli del concorso. Athena del francese Romain Gavras nonostante il suo stile da videoclip (Gavras è uno dei più noti registi del settore), il suo uso roboante della musica e i toni sentimentalistici di alcuni passaggi in chiaro contrasto con le ambizioni di durezza e denuncia del progetto, ha trovato i suoi estimatori per le sue audaci analogie con la tragedia greca. Ma Rumore bianco di Noah Baumbach ha deluso quasi tutti gli estimatori del romanzo di Don DeLillo, uno dei massimi autori contemporanei, a cui giustamente il cinema ha sempre avuto timore ad accostarsi (si veda il fallimentare Cosmopolis di David Cronenberg). È andata ancora peggio a Blonde, mastodontico progetto di Andrew Dominik basata sulla biografia romanzata di Marylin Monroe di un’altra stella della letteratura contemporanea, Joyce Carrol Oates. Fatto a pezzi quasi unanimemente dalla critica, il film ha naturalmente trovato il suo pubblico su Netflix, ma la sua fortuna sembra già definitivamente tramontata.
Ancora più sorprendente è il risultato di Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades, uno dei film più attesi della Mostra, il ritorno di Alejandro Iñarritu in Messico, dopo una serie di grandi successi statunitensi. Come troppi prima di lui, Iñarritu cede alla tentazione di fare un film su stesso, e il suo si rivela particolarmente indigesto, un vanity project sentenzioso, ripetitivo, auto-indulgente, di oltre tre ore, girato quasi interamente con obiettivo grandangolare e appesantito da una visionarietà che non è, evidentemente, nelle corde del regista.

La fortuna ha invece arriso a Luca Guadagnino, che con il modesto horror cannibalistico/adolescenziale Bones and All ha interrotto la serie di insuccessi seguiti alla sua consacrazione internazionale con Chiamami col tuo nome ed è stato, generosamente, premiato con il Leone d’argento per la migliore regia. Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin) del drammaturgo irlandese Martin McDonagh (Tre manifesti a Ebbing, Missouri, In Bruges), ha ottenuto il premio alla migliore sceneggiatura e a Colin Farrell come migliore attore. Farrell è stato preferito al favorito Brendan Fraser, che nel ruolo di un misantropo affetto da obesità in The Whale di Darren Aronofsky, adattato da un testo teatrale, ha fatto un ritorno in grande stile dopo che il brusco arresto subito dalla sua carriera da almeno un decennio.

È stato comunque un film statunitense a vincere il Leone d’oro, il documentario di Laura Poitras sulla grande fotografa Nan Goldin. All the Beauty and the Bloodshed racconta l’artista alle prese con la sua battaglia contro la casa Purdue Pharma, responsabile della produzione di un oppiaceo rivelatosi in alcuni casi letale, e ripercorre le tappe più importanti della sua carriera fotografica. Ma è proprio la natura sostanzialmente disomogenea del documentario, che non trova un equilibrio convincente fra le sue due anime, a non produrre un risultato rilevante. Che è invece quello raggiunto da Tár, il primo film di Todd Field dopo il fortunato In the Bedroom (2002) e dopo il sottovalutato Little Children (2001).

Cate Blanchett, nel ruolo più impegnativo della sua brillante carriera, si è giustamente aggiudicata la Coppa Volpi come migliore attrice, ma è singolare che uno dei film americani più interessanti degli ultimi anni sia stato sostanzialmente giudicato irrilevante dalla critica italiana e da un festival che da tempo si rappresentare una sorta di anteprima ai premi degli Academy Award dell’anno successivo. Perché Tár avrà certamente svariate nomination agli Oscar; la vittoria di Cate Blanchett è quasi scontata, quella del film molto dubbia. Nonostante la critica d’oltreoceano abbia parlato del ‘grande film americano’ che non si vedeva da anni, e tratti temi molto alla moda, Tár ha un approccio talmente obliquo e sofisticato da renderlo in tal senso un candidato problematico. Parte come un austero film sul mondo della musica classica, il ritratto molto glamour di una grande direttrice d’orchestra, e si prende parecchio tempo prima di virare, a circa metà racconto, verso una riflessione sulla cancel culture, che assume toni sempre più misteriosi fino a divenire una sorta di thriller. È un film complesso, coraggioso e atipico nel panorama del cinema d’oggi, non solo americano, che contiene almeno due film diversi, forse tre considerando lo spiazzamento generato dal suo segmento finale, che conduce a un epilogo imprevedibile e tanto più efficace quanto in gran parte lasciato all'interpretazione dello spettatore.


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Reportage sulla 77esima Mostra del cinema di Venezia di Pier Paolo Ronchetti

  di  Pier Paolo Ronchetti Il primo grande festival di cinema nel mondo afflitto dal Covid, dopo quella che è stata in pratica la cancellazione di Cannes e Locarno, si è rivelato un successo. Piuttosto imprevedibile, viste le incerte premesse, dovute al drastico calo di presenze di film, spettatori e addetti ai lavori, necessarie per mantenere le misure di sicurezza. Le moltissime repliche, specie dei film in concorso (12 in luogo delle consuete 5) hanno permesso di fruire dell’intero programma senza code e soprattutto senza percezione del rischio.  L’assegnazione dei premi ha comprensibilmente suscitato qualche malumore. Soprattutto per quanto riguarda il Leone d’oro. Arrivato come superfavorito, perché unico film interamente americano in concorso, prevedibile candidato ai prossimi Oscar (di cui da troppi anni il festival si propone di essere la vetrina, trascurando spesso il cinema non anglofono), Nomadland di Chloé Zhao, autrice del successo di nicchia The Rider e regista dell’imm